MD giovane

La misericordia

3 giugno 1935 – Lettera a Madeleine Tissot

Caritas + 3 giugno 1935

Cara,
Ho ricevuto stamattina una lettera di Madeleine Aubert che mi dice di pregare per lei. Sarà una forza in più, non è vero?
Ancora una volta cosa dirle? Non lo so. Ci sono cose che sono state dette e ridette e si ridicono all’infinito. Una delle cose per me inesauribili in questo momento è la misericordia del Buon Dio. Che gioia pensare che, qualsiasi siano i nostri peccati, rimangono cose finite e che la misericordia divina, invece, è infinita.
La misericordia rende bene per male: laddove noi siamo stati più miserabili ci rende più santi, le dobbiamo delle ricchezze perfino in proporzione alla nostra povertà. La Speranza è una grande virtù e bisogna aver abusato molto e abbondantemente e per lungo tempo della grazia per capirla. Essa è la gloria del Figlio come la Giustizia è quella del Padre e la Santità quella dello Spirito. Consegniamoci a essa, «amiamo Dio poiché ci ha amati per primo».
Sua in +
M.


4 giugno 1938 – Lettera a Madeleine Tissot
Data ricostruita.
Ancora una volta, la salute di Madeleine Tissot si è aggravata.

Centri sociali Vigilia di Pentecoste 38
Ivry-sur-Seine
207, rue de Paris

Cara Madeleine,
Ecco in allegato la lettera che avevo cominciato per lei. Ricevo la sua e subito vengo a dirle il mio pensiero presente in nostro Signore.
Indovino cosa le costi questa prova da imporre alla sua povera mamma. Ma, tutto è talmente al di fuori della sua volontà, talmente condotto da Dio, che le grazie di fortezza saranno certamente date quando ce ne sarà bisogno e nel modo in cui occorrerà.
Comprendo il grande abisso dinanzi a cui lei si trova. Ma quest’abisso, che sia la fine della nostra vita sulla terra o la fine della vita normale è in ogni modo un abisso di misericordia. Leggevo, non so più dove, della S.ta Vergine: «si è collocata al centro della misericordia». Il centro della misericordia è la speranza, la santa speranza, che conosciamo talmente male e che ci conduce veramente al largo, in mare aperto, lontano da tutti gli appigli ma anche da tutti i timori umani.
Tempo fa, quando pensavo alla morte, desideravo poter purificarmi di più prima dell’incontro totale con Dio. Ora, mi pare che tutti i prodigi che si possono fare nel nome del Signore siano ben poca cosa a confronto con l’atto ben semplice che consiste nel credere che possiamo convertirci e salvarci, soltanto perché è morto per noi. Se morissimo nell’istante in cui questo pensiero ci possedesse completamente senza alcun personale tornaconto, credo che cadremmo direttamente nel cuore di Dio.
In ogni caso lasciamolo fare, lui che sa tutto quel che vuole, di noi che non sappiamo.
Gli chieda per me quel che domando per lei: la nostra «rassegnazione », la nostra completa «consegna» al suo amore.
La abbraccio fortissimo.
Molti saluti a Marguerite.
Madeleine

Donne e ironia

Testi di Madeleine Delbrel selezionati dall’Osservatore romano

Il cristiano: un’ipotesi vivente di Dio

« Dio resterà morto per tutti quelli che ci sono accanto?
Che sanno che noi gli abbiamo dato la nostra vita
e che lo diciamo e che non ne siamo pentiti;
non sorgerà un “dubbio” su questa morte?».

Nota personale del 1956: «Una vocazione per Dio tra gli uomini», in La gioia di credere,  177.

La Chiesa è per natura calamitata dalle estremità della terra

La Chiesa deve essere là dove è Lui [il Cristo, che abita sotto le apparenze di chi è nudo, affamato, prigioniero, straniero, senza casa […] qualcuno di indefinitamente “esiliato”]. 
Esiliata la Chiesa lo è inoltre in tutta la sua storia,
in forza della violenza che continuamente, da una parte o dall’altra, le fanno gli avvenimenti.
Sempre “orientata”, ma continuamente “dirottata” dagli itinerari logici
a causa degli esodi del popolo dei poveri e dei sussulti del mondo.
La Chiesa è per natura calamitata dalle estremità della terra […]
e non potrebbe distogliersene senza snaturarsi.

Da: «La fede e il tempo», in La gioia di credere, 204.207.


Chiamati ad andare con una fede nuda

Non può non andare colui che possiede il tuo Spirito, Signore.
Noi immaginiamo sempre che per andare
occorrano strade, tappe e paesi che cambiano.
Ma la tua via non consiste in questo.
È la vita, semplicemente:
la vita che scorre e nella quale andiamo
se le nostre àncore sono levate.
Da te, Signore, siamo chiamati ad andare
leggeri, senza possessi, con una fede nuda, essenziale.
Questa fede ci rende semplici della tua grande semplicità.
Essa si acquista con il sacrificio
di tutto quanto non sia il Regno dei cieli.
Allora quelli che ci incontreranno sul loro cammino
tenderanno le mani avide al tesoro che zampilla da noi:
un tesoro liberato dai nostri vasi di terra,
dalle nostre valigie, dai nostri bagagli,
un tesoro semplicemente divino.
Allora noi saremo agili
e diventeremo a nostra volta delle parabole
che donano a tutti la perla preziosa, la vita vera.

 


La luce oscura della fede

La conversione accade in un giorno decisivo
che ci distoglie da ciò che sappiamo
della nostra vita, perché, faccia a faccia con Dio,
Dio ci dica quello che ne pensa e quello che ne vuol fare.
In quel momento Dio diventa per noi estremamente importante,
più di ogni cosa, più di ogni vita, anche e soprattutto della nostra.
Senza questo primato estremo, accecante,
di un Dio vivo, Risorto, di un Dio che ci interpella,
che propone la Sua volontà al nostro cuore, non vi è fede viva.
Ma se l’Incontro è l’illuminazione di tutto
il nostro essere da parte di Dio,
questa illuminazione, per essere pienamente vera,
deve essere pienamente oscura.
Avere una fede viva è essere accecati da essa,
perché essa possa guidarci in tutti i nostri giorni.    


La vita è fatta per esplodere, per andare più lontano, per farsi dono. Quando la si conserva per sé, la si soffoca. Una vita che si dà, perché il mondo non sia come prima, fa miracoli.

La bontà del cuore che dal Cristo proviene, e che lui ci dà, è per il cuore non credente un presentimento di Dio stesso. La bontà del cuore ha, per il cuore non credente, il gusto sconosciuto di Dio, e sensibilizza al suo incontro.

 


Dopo le sue prime settimane di pontificato, molti di noi si sono riconosciuti analfabeti del vangelo

Noi non siamo i primi, come cristiani, a doverci introdurre in un tempo nuovo. Ma Dio resta padre. Se è necessario, ci invia delle guide e la grazia di riconoscerle. Parlerò di una sola fra esse: Giovanni XXIII. Egli ci ha ricondotti là dove avevamo bisogno di ritornare: alla scuola materna.
Avremmo chiesto qualcosa di stupefacente e di immenso. In ogni caso quel che abbiamo ricevuto è stato un papa, un vecchio papa, venuto dai poveri, uomo fra tutti gli uomini, prete fra i preti, vescovo fra i vescovi. Questo papa si è messo al lavoro come se disponesse di una vita appena iniziata.
Ha preso le parole di Cristo alla lettera, sapendo che i palazzi e le amministrazioni non potevano da soli contenerle. Le ha vissute con il suo realismo di contadino.
Questo papa ha teso le braccia al mondo intero e l’ha stretto a sé. È stato il prossimo di tutti.
Ci ha fatto comprendere che solo la petulanza della nostra volontà può tenere prigioniera la missione del Cristo. Che questa missione è libera quando colui che la porta in sé obbedisce a colui che gliel’ha data.
Dopo le sue prime settimane di pontificato, molti di noi si sono riconosciuti analfabeti del vangelo. I non credenti, di fronte alla televisione, alla radio, al giornale, si meravigliavano come davanti ad un fenomeno sconosciuto.
Egli si mise semplicemente e chiaramente sulla soglia del cuore di ciascun uomo non da giudice, ma da amico, riservando solennemente a Dio di riconoscere in ciascuno la buona o la cattiva volontà.
Ci ha dimostrato che, anche per un papa la vita cristiana è vivibile nel nostro mondo e nel nostro tempo.

Un maestro inatteso

I tempi nuovi e la loro guida.
Noi non siamo i primi, come cristiani, a doverci introdurre in un tempo nuovo. Altri hanno dovuto, prima di noi, camminare su terreni sconosciuti senza potere imitare un precursore, un compagno. Ma Dio resta padre, non ci prova per farci cadere in tentazione. Se è necessario, ci invia delle guide e la grazia di riconoscerle.
Con l’alba di ogni tempo, queste guide sorgono. Oggi [1964] Paolo VI è il papa della chiesa in cammino: camminando vuole trovare la somiglianza col Cristo e l’incontro col mondo. Per metterci su questa strada, molte guide ce l’hanno indicata. Richiamare la loro memoria o evocarle sarebbe troppo lungo. Parlerò di una sola fra esse: Giovanni XXIII. Egli è inseparabile dalla lezione spirituale di cui sto parlando con voi. Ne fu l’ultimo maestro: quello che non attendevamo. Egli ci ha ricondotti là dove avevamo bisogno di ritornare: alla scuola materna.

“Un piccolissimo miracolo”

Ho letto un libro di ragazzi che portava questo titolo. Penso che Dio abbia dato ai poveri ragazzi che siamo – poveri ragazzi che non sono veri fanciulli – “un piccolissimo miracolo”. Questo miracolo è Giovanni XXIII.
Io non cerco la comicità ravvicinando a quest’uomo di campagna che fu un papa grande, le parole: “un piccolissimo miracolo”. In un tempo di prodigiose scoperte umane, in un tempo in cui l’umanità restringe l’universo in maniera vertiginosa, noi avremmo chiesto, se avessimo chiesto un miracolo, un prodigio a misura cosmica o, nella chiesa, trasformazioni repentine e universali. Avremmo chiesto qualcosa di stupefacente e di immenso. Io non so se alcuni di noi abbiano chiesto un tal prodigio. In ogni caso quel che abbiamo ricevuto è stato un papa, un vecchio papa, venuto dai poveri, uomo fra tutti gli uomini, prete fra i preti, vescovo fra i vescovi. Questo papa ha preso la velocità del nostro tempo. Si è messo al lavoro come se disponesse di una vita appena iniziata. Ha lavorato sapendosi condannato a morte. Sapeva che il Cristo ha riscattato il tempo, ciascun tempo di tutti i tempi. Egli non si è gingillato a scuotere gli scenari, a liberarsi anche quando lo si poteva fare, da situazioni antipatiche o incomprensibili alla maggior parte della gente. Si è sentito premuto al più: ha preso le parole di Cristo alla lettera, sapendo che i palazzi e le amministrazioni non potevano da soli contenerle. Le ha vissute con il suo realismo di contadino. E quel che non aveva il tempo di fare, lo ha lasciato a Dio perché sceverasse il loglio dal grano. Ha lasciato che il deperimento agisse, contentandosi di non venirgli in aiuto.
Questo papa ha teso le braccia al mondo intero e l’ha stretto a sé. È stato il prossimo di tutti, lasciando alla Provvidenza quel che del destino delle classi, delle razze, delle masse, egli non aveva il tempo di realizzare. Egli ha preso al mondo d’oggi la voce che la tecnica gli offriva per raggiungere ai quattro angoli della terra ciascun uomo, di cui Dio è padre.
Di Dio paterno e buono fu testimone umile, fedele e risonante. Testimoniò di appartenergli come ogni uomo vivente. Tra gli uomini creati da Dio, si collocò anch’egli anzitutto come una realtà. Egli ci ha fatto comprendere che solo la petulanza della nostra volontà può tenere prigioniera la missione del Cristo. Che questa missione è libera quando colui che la porta in sé obbedisce a colui che gliel’ha data. Ma ci ha ricordato che se il vangelo del Cristo deve essere annunciato in lingue umane, non può essere separato dal linguaggio stesso di Gesù Cristo, da quel linguaggio che è la bontà. Ci ha ricordato che la bontà, tanto svalutata nel mondo, ed anche tra noi, è con il nostro cuore la carne della carità. Dopo le sue prime settimane di pontificato, molti di noi si sono riconosciuti analfabeti del vangelo. Ci parlava delle “opere di misericordia” come di una scienza della scuola materna. Noi, non ne sapevamo più neanche il nome. Ma quando egli “praticava” una di esse, i non credenti, di fronte alla televisione, alla radio, al giornale, si meravigliavano come davanti ad un fenomeno sconosciuto.
Egli si mise semplicemente e chiaramente sulla soglia del cuore di ciascun uomo non da giudice, ma da amico, riservando solennemente a Dio di riconoscere in ciascuno la buona o la cattiva volontà. Nel nostro pianeta, convulso di paura, non ha atteso le lente pacificazioni alle quali si lavorava, per essere egli stesso un pacifico. Ci ha lasciato la sicurezza del suo realismo, quello di un contadino che conosce le leggi delle semine e delle vendemmie. Ci ha insegnato che, quale che sia il suolo del nostro mondo e del nostro tempo, le parole del Cristo sono leggi immutabili, che non passeranno neanche quando il cielo e la terra passeranno.
Quando morì, mentre tanti non credenti piangevano, ci restava di saper essere riconoscenti che fosse vissuto. Ci resta ancora da saldare il debito, indubbiamente analogo a quello della gente che ha conosciuto dei santi: ci resta da fare quel che ci ha insegnato, si viva a Ivry o si viva altrove. Giovanni XXIII ci ha dimostrato che, anche per un papa la vita cristiana è vivibile nel nostro mondo e nel nostro tempo.

Madeleine Delbrêl

(Noi delle strade, Gribaudi, Torino 1969, pp.318-320)

Come la Chiesa, a causa del mondo, noi siamo in stato di urgenza

Per il fatto di essere nella Chiesa, siamo gente pressata in lei, pressata come lei. Come lei, a causa del mondo, noi siamo in stato di urgenza. Tutto ciò che  facesse di noi dei pensatori, degli amanti della introspezione, dei problematizzatori cronici ci distoglierebbe da questa urgenza ed è ciò che temo per noi. Al contrario, camminando si può pensare, raccogliersi, riflettere. (…)
Ora noi abbiamo sempre la tentazione di dimenticare questo stato di Chiesa, di urgenza e di trasformare le soste della nostra vita in immobilismo o in discussioni interminabili.
Possiamo sclerotizzare anche le parole del Signore e il suo pensiero, dimenticando che sono spirito e vita. Anche la carta, questo codice del nostro cammino, possiamo fare su di essa un lavoro di cartografia.
Anche gli appuntamenti che il Cristo ci ha dato: “Là dove due o tre sono riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro”, possiamo farne delle conferenze.
Anche la preghiera, questo mezzo datoci da Gesù per avere ciò che ci è necessario, possiamo farne qualcosa di meccanico o una richiesta di sovvenzioni. Anche le soste necessarie: “venite in disparte e riposatevi un poco”, possiamo non accamparci, ma studiare l’arte del campeggio.
Nelle svolte dei nostri sentieri, accanto alla gente che incontriamo e che fa con noi il grande passaggio, rischiamo di dimenticare che il Cristo è la nostra unica via e che Egli è presente in ogni nostro incontro. Allora siamo capaci di fermarci per dipingere un paesaggio… o per fare delle analisi psicologiche.
Bisogna che il Signore ci salvaguardi da tutte queste tendenze.
Bisogna chiedergli che la nostra guida tascabile ci insegni, in ogni equipe, ad accordare i nostri passi, a portare i pesi gli uni degli altri, a fare nostra la fatica di tutti, a sorridere quando si ha male ai piedi, a sorridere davvero per non essere ingrati.
Per via: “tutto ciò che capita è adorabile”, per via tutto è grazia»

(Alla comunità, 6 ottobre 1964, inedito)

 


«Non è organizzando il mondo che noi saremo innestati sulle nozze della Chie­sa, ma con il portare in noi ciascuno degli uomini di questo mondo, ciascuno di quel­li che incontriamo, dando loro non un’or­ganizzazione di vita, ma il diritto di vivere nella nostra vita, comunicando loro tutto ciò che noi siamo, tutto ciò che è nostro, dal pa­ne alla grazia».

(in La gioia di credere)


Tutto il Vangelo non è altro che la buona notizia della carità: l’amore è stato reso possibile e rimane possibile, attraverso la croce e nella croce. 

Siamo obbligati a predicare, perché predicare significa dire pubblicamente qualcosa a proposito di Gesù Cristo, Dio e Signore: non si può amarlo e tacere. 

La croce non è facoltativa né per il mondo né per noi. Accettare la croce e portarla è la parte maggiore del nostro lavoro. 

L’adorazione! Noi pensiamo che questo atteggiamento di creatura di fronte al Creatore sia quello che ci conviene assumere – e d’urgenza – nel nostro mondo invertito verso l’uomo e deviato dal suo fine. E’ indispensabile che molti di noi vi si consacrino: è un bisogno del Corpo Mistico! 

Amare sempre e comunque, è la via miglior per salvare sicuramente qualcuno, in qualche parte del mondo. 

La carità noi non la facciamo. Dio, e Dio solo, può fare la carità. Noi dobbiamo chiedergliela, noi dobbiamo riceverla. 

La sposa non genera opere d’arte nell’euforia e nella solitudine, ma figli di Adamo di cui deve fare dei figli di Dio con la sua carne e la sua anima. 

L’insolito del cristiano è unicamente e semplicemente la somiglianza con Gesù Cristo. Gli è stata inserita nel cuore attraverso il battesimo e deve arrivare come a fior di pelle. 

La vita è una prefazione alla morte, la morte è una prefazione all’amore. 

Predicare il Vangelo a ogni creatura significherà per alcuni recarsi presso un’altra razza o un’altra classe sociale, e per altri restare tra le persone della propria classe o della propria razza. 

Non dobbiamo dare agli altri il nostro amore, ma l’Amore di Dio. 

Il silenzio è presenza di Dio e non necessariamente assenza di gente. 

Non bisogna mescolare il Vangelo della salvezza con le ricette di felicità che il mondo esalta. 


Poiché le parole non sono fatte
per rimanere inerti nei nostri libri,
ma per prenderci e correre il mondo in noi,
lascia, o Signore,
che di quella lezione di felicità,
di quel fuoco di gioia
che accendesti un giorno sul monte,
alcune scintille ci tocchino, ci mordano,
c’investano, ci invadano.
Fa’ che da essi penetrati
come “faville nelle stoppie”
noi corriamo le strade di città
accompagnando l’onda delle folle
contagiosi di beatitudine, contagiosi di gioia.
Perché ne abbiamo veramente abbastanza
di tutti i banditori di cattive notizie,
di tristi notizie:
essi fan talmente rumore
che la tua parola non risuona più.
Fa’ esplodere nel loro frastuono il nostro silenzio
che palpita del tuo messaggio.
Gioie venute dalla montagna

Il ballo dell’obbedienza

Se fossimo contenti di te, Signore,
non potremmo resistere
a questo bisogno di danzare che irrompe nel mondo
e arriveremmo a indovinare
quale danza ti piace farci danzare
sposando i passi della tua Provvidenza.

    Naturalezza

Il nostro grande dolore è amarti senza letizia,
te, che «crediamo» la nostra gioia,
è restare aggrappati senza naturalezza e senza grazia
alla tua volontà che ci muove lungo i giorni.


   L’estasi dei tuoi voleri

Se ti piacesse, Signore, domandarci una sola cosa,
in tutta la nostra vita, ne resteremmo meravigliati,
e aver compiuto questa sola volta la tua volontà
sarebbe l’evento culmine del nostro destino.
Ma poiché ogni giorno, ogni ora, ogni minuto
tu ci metti fra le mani un tale onore,
noi lo troviamo così naturale che ne siamo tediati, che ne siamo stanchi.
E invece, se comprendessimo quanto è inscrutabile il tuo mistero
resteremmo stupefatti di poter sapere
queste scintille del tuo volere che sono i nostri minuscoli doveri.

   La passione delle pazienze

La Passione, la nostra passione:
certo, l’attendiamo, sappiamo che deve venire,
e decisamente intendiamo viverla con una certa grandezza.
[…]
La passione: l’aspettiamo, l’aspettiamo e non viene.
Ciò che viene, sono le pazienze.
Le pazienze, questi piccoli pezzi di passione,
con il compito di ucciderci con grande dolcezza per la tua gloria
di ucciderci senza nostra gloria.

    Il nuovo giorno

Comincia un altro giorno. Gesù in me vuole viverlo.
Egli non si è isolato.Ha camminato in mezzo agli uomini.
Con me, egli è in mezzo agli uomini di oggi.


    Liturgia senza breviario

Stanotte ci hai portati in questo caffè che si chiama «Il Chiar di Luna».
Avevi voglia di esser qui tu, in noi, stanotte, per qualche ora.
Hai avuto voglia di incontrare attraverso le nostre misere sembianze,
attraverso i nostri occhi che vedono male,
attraverso i nostri cuori che amano male,
tutta questa gente venuta ad ammazzare il tempo.
E poiché i tuoi occhi si destano nei nostri,
poiché il tuo cuore si apre nel nostro cuore, sentiamo il nostro debole amore
Spandersi in noi come una larga rosa,
Approfondirsi come un rifugio immenso e dolce
per tutta questa gente la cui vita palpita attorno a noi.

   Gesù Cristo nella città – Rivolto a un ateo

Nel momento in cui tu hai fatto di tutto per separarti da Dio,
dei cristiani ti hanno lasciato solo.
A motivo dell’unità che ci lega, io mi considero responsabile.
È di Dio che sei stato privato, è Dio che dovrei renderti.
Ma tu sai che la Fede non posso, non possiamo donarla.
Devo cercare di darti Dio in altro modo.
Tu crederai o non crederai, come vuoi. Io terrò Dio accanto a te.

Brani completi ed altri testi

Vi sono persone che Dio prende e mette da parte.
Ve ne sono altre che lascia nella massa e non «ritira dal mondo». Sono persone che fanno un lavoro comune, che hanno una comune famiglia o è comune gente non sposata…
La santità della gente comune

Facci vivere la vita non come una partita a scacchi dove tutto è calcolo
non come una gara dove tutto è arduo
non come un problema da romperci la testa
non come un debito da pagare
ma come una festa
come un ballo
come una danza
fra le braccia della tua grazia.
Humour nell’amore

La parola di Dio non la si porta in capo al mondo in una valigia: la si ha in sé, la si porta in sé.
Non la si ripone in un angolo di noi stessi, nella memoria, come sul ripiano di un armadio. La si lascia arrivare fino al fondo di sé, fino a questo cardine su cui ruota tutto ciò che siamo.
La santità della gente comune

Il missionario è qualcuno che prega, qualcuno che testimonia, qualcuno che ama.
Ivi

Il convertito è un uomo che scopre questa fortuna meravigliosa: Dio esiste.
Ivi

L’eucaristia è il nostro tutto e noi dobbiamo esserne il segno.
Abbagliata da Dio

La fede è l’impegno della vita eterna nel tempo.
Ateismo ed evangelizzazione

Io sono nella Chiesa come le membra sono nel corpo, come una cellula in un organismo vivente. Essa mi trasmette la vita dei figli di Dio.
La donna, il prete e Dio

I missionari

Da “Missionari senza battelli” (1943)

Dio ha detto al mondo intero: “Il primo e il più grande comandamento è questo: Amerai il Signore tuo Dio…”.

Questo è stato detto a tutti. L’averlo capito, ha fatto i missionari. Capire che si deve amare Dio, anche follemente, può fare delle persone virtuose. Ma capire che Dio ha desiderio di tutto questo amore, dell’amore di tutti gli uomini che sono nati, che nascono o che nasceranno: è questo che fa i missionari. “L’amore non è amato”, gridano i missionari di tutti i tempi e di tutti i generi. Li consola molto poco il fatto di avere qualche briciola d’amore di Dio nel cuore, se delle moltitudini restano totalmente fredde davanti a “questa cosa così buona che non ce ne può essere una migliore”. Se sapessero che Dio desidera solo loro stessi, certamente il loro povero amore basterebbe per loro: ma Dio desidera il mondo e che cosa non farebbero per darglielo.

Lasciarsi pervadere dallo Spirito

“Lo Spirito non è venuto in noi per riposarsi; Egli è infaticabile, insaziabile nell’agire. (…) Basta un nulla per spegnere un focherello, mentre un fuoco avvampante consuma ogni cosa. (…) L’amore di Dio, quando brucia, produce della cenere: è l’umiltà”. Ecco alcune delle affermazioni di Madeleine Delbrêl sullo Spirito Santo, tratte dall’antologia “Indivisibile Amore. Pensieri di una cristiana controcorrente” (Piemme, 1994, pp. 43-45), che proposte in un video di youtube

La parrocchia missionaria

La parrocchia missionaria, cellula della Chiesa, deve vivere la doppia vocazione di essere sempre più «stabilita» e sempre più «inviata».

Stabilita. Il popolo di Dio che essa raduna deve sviluppare vigorosamente la vita che le è propria e farla crescere assieme alla vita umana, nei figli che diventano figli di Dio. La sua vita propria è soprannaturale; la sua autorità, il suo insegnamento, la sua missione, i suoi mezzi hanno una dimensione divina: vengono da Dio e sono per Dio. È una vita perché Dio è vivente […]
E’ una vita indissolubilmente filiale e fraterna, perché il Dio vivente è nostro Padre, perché essere suoi figli ci rende fratelli tra di noi. L’ambizione di questa vita è “impossibile agli uomini”.
Inviata. Quel che la parrocchia missionaria deve proporre agli indifferenti e ai non credenti è ciò che la rende la più estranea al mondo che essi costituiscono: la sua fede.
Ma perché la fede sia intesa, il suo messaggio capito, è necessario che coloro i quali l’annunciano accettino di essere separati dal mondo solo per la fede; che vogliano essere uniti agli uomini di questo mondo come fratelli di uno stesso sangue e di uno stesso destino; che siano estranei a causa della loro fede, ma per nulla a causa di se stessi. […]
La lucidità delle parrocchie missionarie è stata e deve essere grande per impedire che noi facciamo di essa non una straniera ma la partigiana di un clan sociale, non la maestra di eternità ma la specialista del passato, non la fornitrice di vita eterna ma di uno stile di vita terreno, non la traduttrice del mistero per tutti ma una scienziata senza linguaggio popolare”
(M. DELBRÊL, “Caratteristiche di una parrocchia missionaria”, in:  Noi delle strade, Gribaudi, Milano 1969, rist. 2002, p. 197-198).

Lo “statu quo” in rapporto alla fede è contro-natura

Questa affermazione mostra la viva coscienza di Madeleine della fede come “impegno/coinvolgimento della vita eterna nel tempo” e dell’esigenza di imparare a coniugarla con i rapidi cambiamenti del nostro tempo. Possiamo leggerne di seguito tutto il passaggio.

Eccetto quello che Gesù Cristo ci ha domandato di credere, io mi sento incapace di avere delle idee che non evolvano e con la vita e con me stessa

(Lettera a p. Roger de La Pommeraye del marzo 1956).

La fede non è l’impegno nel tempo della vita eterna ? Per vivere della nostra fede nel nostro tempo e nel nostro mondo oggi e qui; per poter realizzare la nostra vocazione alla fede, essere davvero in questo mondo e in questo tempo, siamo forzati ad accordare la nostra vita cristiana a tutto ciò che è, attualmente, accelerato, momentaneo, immediato, siamo forzati non a credere diversamente, ma a vivere diversamente, non ad adattare la fede a questa realtà temporale movimentata fino all’eccesso; ma ad adattarci a questo movimento, adattarci a riconoscere, scegliere, fare la volontà di Dio in questo movimento. Dobbiamo imparare ad adattare rapidamente alla fede noi stessi e le circostanze. Ora noi non siamo preparati al rapidamente.

Lo ‘statu quo’, quando lo si guarda da vicino, sembra essere l’atteggiamento più micidiale per noi; forse perché in rapporto alla fede è – se lo si può dire! – contro-natura!

(Lettera a Mons. Glorieux del 24.01.1961, riportata in: Ch. De Boismarmin, Madeleine Delbrêl 1904-1964. Strade di città, sentieri di Dio, Città Nuova, Roma1988, p.181s)

La Parola si comprende vivendola

“Chi lascia penetrare in sé una sola parola del Signore, conosce il Vangelo più di quegli il cui sforzo resterà solo meditazione astratta o considerazione storica”.
Con questa acuta osservazione si apre questa pagina di Madeleine che continua ad approfondire il mistero della Parola che vuole abitare nella nostra vita

(Noi delle strade, 78-79 passim).   

Il Libro del Signore

“Approfondire il Vangelo significa rinunciare alla nostra vita per ricevere un destino che ha per unica forma il Cristo”.
Così si conclude questa pagina di Madeleine in cui ci aiuta a penetrare il mistero della Parola che può plasmarci.

Lasciamoci interrogare da questo scritto di Madeleine Delbrê.

(La gioia di credere, 31-32)

Dio felicità incomparabile

Giunta a vent’anni alla fede scriveva: Quando non credevo in Dio, trovavo ogni giorno di più che il mondo e la storia, che il nostro mondo e la nostra storia, erano la più sinistra farsa che si potesse immaginare. […] Allora avrei dato l’universo intero per sapere che ci stavo a fare.” Dopo il suo incontro abbagliante con Dio confidava: “Che Dio esista è la felicità incomparabile che si può appena psicologicamente scegliere quando lo si conosce, tanto la preferenza si impone. Mi era e mi resta tuttora impossibile mettere sulla stessa bilancia Dio da una parte, dall’altra tutti i beni del mondo, che sia per me o per tutta l’umanità.”  

La nostra vita alla Charité

Madeleine risponde nel 1952 a una richiesta di informazioni a proposito della sua vita

Nonostante sia stato fondato nel 1933, il nostro gruppo non è legato ad alcuna organizzazione. Non prevede voti né promesse ufficiali. È la vita comune, molto intensa, a segnarne nettamente la nascita e a rendere in qualche maniera «pubblico» il suo impegno. Coloro che ne fanno parte praticano i tre consigli evangelici. La nostra vita, sempre in piccole équipe, è essenzialmente comunitaria. Lo scopo è unirsi il più possibile a Cristo in pieno mondo, imitare la sua vita, obbedire al suo Vangelo e trasmetterlo. Tutto questo obbliga a una forte vita di preghiera, a lasciarsi condurre dalla carità verso un’azione concreta: vedere un fratello nel più prossimo e trattarlo nei fatti come tale senza tatticismi ma con tutto l’amore di Gesù Cristo.

Testo della Lettera del 1952 a un destinatario sconosciuto

Corriamo contagiosi di gioia

Poiché le tue parole, mio Dio, non son fatte
per rimanere inerti nei nostri libri,
ma per possederci
e per correre il mondo in noi,
permetti che, da quel fuoco di gioia
da te acceso, un tempo, su una montagna,
e da quella lezione di felicità,
qualche scintilla ci raggiunga e ci morda,
ci investa e ci pervada.
Fa’ che, abitati da esse,
come “fiammelle nelle stoppie”,
corriamo per le vie della città,
e fiancheggiamo le onde della folla,
contagiosi di beatitudine,
contagiosi della gioia…

(da: “Gioie venute dal monte”, in: La gioia di credere)

Il diritto di Cristo di prendere la Parola

Quando si è cristiani,
non fare tutto il possibile,
ognuno al suo posto,
perché il Vangelo di Cristo venga annunciato,
è perpetrare un furto,
è rubare il suo sangue,
perché è a prezzo del suo sangue
che Cristo ha conquistato di forza
il suo diritto di prendere la parola
fino alle estremità della terra,
per sempre,
tutti i giorni,
fino alla fine del mondo.

(da: Provocazione marxista a un’esistenza per Dio)

Ambienti non credenti e gioia cristiana

Da una conferenza sulla fede tenuta a Parigi nel 1961 a 1500 giovani del Centro Richelieu, riuniti all’Unesco in preparazione del pellegrinaggio di Chartres

I contatti con l’ateismo attuale o con la non credenza o con l’indifferenza,
non debbono solo generare carità missionaria:
debbono essere generatori di una fede vitalizzata,
di una fede dilatata per ricevere più luce.

In effetti tali contatti
ci conducono a non considerare più il dono della fede,
la capacità che essa ci offre di contemplare Dio,
come un fatto abituale,
ma come un tesoro straordinario e straordinariamente gratuito.
Questi contatti ci insegnano a essere abbagliati dalla grazia.
Ci conducono a percepire e a vivere lo stato d’animo del neofita
che noi siamo stati spesso in maniera troppo inconsapevole.
Ci rivelano una profondità di ringraziamento
che non avremmo altrimenti conosciuto.
Normalmente, se ci fanno penetrare in una ansietà,
in un certo dolore missionario,
chiariscono i veri fondamenti della gioia cristiana.

Carichi di energia per il mondo

Il cristiano è “caricato” –
caricato nel senso di una pila elettrica –
di una vita.
Questa vita gli è donata da Dio per il mondo,
è un dono fatto da Dio al mondo per mezzo di lui.
(…)
Siamo “caricati” di energia
senza proporzioni con le misure del mondo:
la fede che solleva le montagne,
la speranza che nega l’impossibile,
la carità che fa ardere la terra.
Ogni minuto della giornata,
non importa dove esso ci voglia o per che cosa,
permette a Cristo di vivere in noi in mezzo gli uomini.

Il genio femminile nella Chiesa

Da La donna e la Chiesa, testo scritto nella solennità dell’Immacolata dell’anno mariano 1953

Chiediamo a Maria di penetrare nel Mistero della Chiesa
attraverso la porta che ci è propria,
di camminarvi attraverso dei sentieri che sono nostri.
Chiediamo a Maria di non essere nella Chiesa
delle specie di suffragette eccitate,
e nemmeno le ombre tremanti dei nostri fratelli uomini.
Chiediamole di immettere nella famiglia dei figli di Dio
ciò che ci è proprio,
rafforzato, dilatato, “smisurato” dalla grazia.
(…)
Che noi siamo vere,
conformi a ciò che Dio inventò quando volle creare la donna.
(…)
La Nave della Chiesa non ha finito il suo viaggio.
Agli uomini il ponte, lo scafo, gli alberi…,
ma per le vele, non c’è modo di fare a meno di noi.
Senza contare che essi hanno sempre voglia di motori
e che il vento dello Spirito Santo non ha mai saputo che farsene.

La pace

Mentre si avvicina la festa della nascita del Principe della Pace e la guerra continua a seminare morte e distruzione, possiamo riascoltare due piccoli testi di Madeleine:

“L’Avvento è un tempo di “gravidanza”. Cerchiamo di non agitarci troppo, non fa bene al bebè che deve nascere” (8 dicembre 1963).

Dunque non agitarci di fronte alle sfide presenti per la pace, ma nemmeno rimanere indifferenti:

“La più grande complice di tutte le sventure è l’indifferenza. […] Credere alla pace è credere alla pace per tutti e non alla propria personale tranquillità. È credere alla pace facendovi credere; la pace non può esistere se non vi si crede. […] Ve lo dico con tutta semplicità: ogni volta che voglio lavorare alla pace, che sia la grande o la piccola, quella di casa mia, della mia famiglia o dei miei amici, mi rendo conto a un certo punto… che sto per partire in guerra contro l’uno o contro l’altro, contro il Nord o contro il Sud, contro l’Est o contro l’Ovest. E come si è facilmente indifferenti verso tutto ciò che non ci tocca personalmente, mi sorprendo a non dare lo stesso valore alle vite umane a seconda che la guerra ne faccia strage vicino o lontano. Il fatto è che il nostro cuore si rinchiude su di sé, ritrova come una brutta piega, una vecchia abitudine di guerra. Parlare “a cuore aperto” con altri è andare contro questa brutta piega, questa vecchia abitudine. È costruire la pace là dove essa comincia e là dove essa termina: nella volontà di ciascuno” (Madeleine, gennaio 1959).

Il Dio vivo del Vangelo non ci brucerà insopportabilmente?

Testi utilizzati nel seminario del 7 gennaio 2023

Il racconto della conversione 

(Madeleine Delbrêl)

«IO VOGLIO QUELLO CHE TU VUOI
SENZA CHIEDERMI
se lo posso
SENZA CHIEDERMI
se lo desidero
SENZA CHIEDERMI
se lo voglio

29 marzo 1924 / 29 marzo 1954

Credere in Gesù Cristo è stato tutto per me dal momento che ho creduto in Dio. A Lui ho donato la mia vita e non me ne sono mai pentita  (Lettera a un destinatario sconosciuto: 12.10.1958 [= III.49]).

Il suo racconto del 1957

Solo chi, già adulto, dall’ateismo è passato al cristianesimo o chi dal cristianesimo è passato all’ateismo può – se lo si giudica così – valutare quale ricchezza sia per un cristiano ai nostri giorni il tesoro della propria fede. Ma la più grande delle sue ricchezze il cristiano non ve la può dare. Se Dio permette che si chiudano a catenaccio i cuori o che si abbiano a scassinare con violenza, non dà però a nessuno il diritto di trapassare questi stessi cuori affinché lo accettino per vero. A noi resta tuttavia il diritto di affaticarci a provare che Dio non è un assurdo, che vi sono degli uomini i quali, anche senza avere una fede religiosa, sono convinti che l’esistenza di Dio costituisca la più ragionevole risposta ai maggiori problemi della vita. Voi vedete bene che, se Dio è possibile, è sempre possibile dar valore ad ogni cosa, mentre in un mondo dove Dio non fosse più possibile resterebbe per noi solo la sventura e nessun altro bene sarebbe allora possibile, cessando la sua relazione con il gran «forse» dell’esistenza di Dio.

Anche con Dio, non tutto sarebbe in regola tra voi e noi; ma senza Dio, nonostante gli affetti, le amicizie, i lavori in comune, non ci riuscirebbe mai d’abituarci a conservare per noi soli una felicità che dovevamo darvi e che voi avete rifiutata. Noi possediamo una gloria che siamo costretti a tenere per noi soli, ma prima di rassegnarmi a questo fatto, io vorrei ripetervi di nuovo molte volte: «Siete poi ben sicuri di ciò che vuol dire l’affermazione non esiste; siete sicuri che cosa voglia dire invece esiste

Quando non credevo in Dio, io scoprivo ogni giorno sempre più – avevo cominciato queste scoperte verso i miei sedici anni – che il nostro mondo e la nostra storia altro non erano che la più orribile farsa che si possa immaginare. Tuttavia cento mondi più disperati non m’avrebbero fatto vacillare d’un passo, anche se mi fosse stata presentata una fede religiosa come la speranza che consola.

Ero troppo orgogliosa delle facoltà intellettuali dell’uomo per abbassarmi a fare una «scommessa». Le scommesse alla Pascal apparivano ai miei occhi come una grande capitolazione umana. In seguito, dovetti abdicare alla sicurezza di questo mio giudizio, poiché m’accorsi che quelli i quali «scommettevano» per un destino eterno erano per la maggior parte d’un temperamento o di formazione scientifici. Indubbiamente essi conoscevano o presentivano meglio di me l’importanza di un’intuizione e di un’ipotesi nelle ricerche sperimentali; essi concepivano l’invenzione meno come immaginazione creatrice che come immaginazione divinatrice. Forse, dopotutto, Pascal promuovendo l’idea della «scommessa» era più uno scienziato che un filosofo. La fede non va d’accordo granché con l’idealismo, sia che esso rimanga accantonato nella nostra forma mentale sia che abbia permeato di sé anche le nostre azioni. Forse io ero molto più vicina alla fede di quanto non lo pensassi quando, sempre più, esigevo dalla mia attenzione alla realtà un continuo lavoro di riflessione e di ragionamento.

Questa forma elementare di metodo nella ricerca della risposta agli interrogativi della vita mi condusse a mutare quello ch’era divenuto il mio problema fondamentale: «Come si conferma che Dio non esiste?» in quest’altro: «Esisterà mai Dio?» In realtà, tra le due domande era venuto a prodursi un fatto: l’incontro con parecchi cristiani, i quali non erano né più vecchi né più ottusi né più «sognatori» di me – cioè vivevano la mia stessa vita, e quanto me sapevano discutere, amavano divertirsi quanto me. Essi avevano inoltre al loro attivo parecchie superiorità: lavoravano più di me, avevano una formazione scientifica e tecnica che io non avevo, come pure convinzioni politiche di cui io ero mancante e che quindi non vivevo.

Simili compagni furono dunque per me in quell’epoca un fatto che cominciai ad osservare, criticare e utilizzare come tutti gli altri fatti che attualmente cadevano sotto i miei occhi. Però il fatto ch’essi costituivano, collocato al suo posto dentro al calendario, portava con sé una contraddizione con l’ultimo punto delle riflessioni a cui io ero arrivata. Per me, Dio nel XX secolo era assurdo, incompatibile come fede religiosa e come ipotesi filosofica, con una sana ragione; era inammissibile, perché inclassificabile.

Fino a quel tempo avevo avuto attorno a me pochissimi cristiani. La loro religione m’appariva come un comportamento sociale che dipendeva dallo stesso ordine di discussione e d’importanza che gli altri «usi e costumi» talora indifferenti e talora tragici. Essi non davano luogo a nessuna delle difficoltà a cui avrebbe dovuto dar luogo una fede religiosa. I miei nuovi compagni mi proponevano invece bruscamente solo quelle difficoltà a cui suole dare luogo una fede religiosa. Sì, essi si trovavano benissimo in tutto il mio reale; ma portavano con sé ciò che ero obbligata a chiamare il «loro reale», e che sorta di reale! Essi parlavano di tutto e anche di Dio, che si sarebbe detto essere per loro necessario come l’aria che si respira. Essi si trovavano a proprio agio con tutti, ma con un’impertinenza di cui finivano per scusarsi, mescolavano a tutte le discussioni, ai progetti, ai ricordi, parole, «idee» e punti di vista che appartenevano a Gesù Cristo. Cristo, avrebbero potuto anche mettere una seggiola per lui alla loro tavola, non sarebbe sembrato più vivo. Sì, essi lavoravano, capitavano loro soddisfazioni e seccature come alle altre persone e le sentivano profondamente; ma sentivano altrettanto quello che sarebbe stato il grande mutamento della loro vita, quando si sarebbero ricongiunti con quel Dio che già anticipatamente erano ben felici un giorno di poter vedere.

Dovendo incontrarmi con loro molto spesso per dei mesi, non potevo ormai più onestamente lasciare non dico il loro Dio, ma Dio semplicemente, nell’assurdo. Fu allora che il mio problema mutò aspetto; e fu ancora in quel tempo che, per essere fedele al mio anti-idealismo, modificai quanto pensavo essere solo un atteggiamento secondario nella mia vita. Se volevo essere sincera, dal momento che Dio non era così assolutamente impossibile come avevo creduto, non doveva ormai essere trattato come se con tutta sicurezza non esistesse affatto. Scelsi ciò che mi sembrava tradurre meglio il mio cambiamento di prospettiva: cominciai a pregare. Quest’idea pratica mi era cominciata a balenare il giorno in cui, nell’occasione di non so quale disputa, si era venuti a parlare del consiglio ch’era solita dare Santa Teresa d’Avila, la quale insegnava a pensare in silenzio a Dio ogni giorno per cinque minuti. Fin dalla prima volta mi posi a pregare in ginocchio, sempre per paura dell’idealismo. Così feci quel giorno e molti altri ancora, senza guardare l’orologio. In seguito, leggendo e meditando, ho trovato Dio; ma fu pregando che cominciai a credere che Dio s’interessasse di me, che egli fosse una verità vivente e che lo si potesse amare come si ama una persona.

Questa verità gratuitamente ricevuta la devo gratuitamente a Dio che me l’ha donata, come pure agli uomini, perché degli uomini mi aiutarono a incontrarla, a saperla possibile e mi insegnarono le prime parole con cui si definisce.

La stessa cosa vale per tutti i cristiani, anche se i fatti per loro non siano stati così rilevanti. Esiste un debito uguale per tutti, che è quello di diffondere la sola felicità assoluta degli uomini, la quale ingrandisce ogni altra felicità mettendola in relazione a Dio.

Se il nostro amore fraterno non arrivasse a questo, sarebbe ben malato. Sappiamo infatti che l’amore che ci deve far diventare apostoli è un’opera di giustizia tanto verso Dio che dobbiamo amare sopra ogni cosa e con tutto il nostro essere, quanto verso il prossimo che dobbiamo amare per Iddio come noi stessi.

(Città marxista terra di missione, pp. 186-189)

Via crucis

“Dio non si apprende”: sulla via della croce con Madeleine Delbrêl  di SERGIO DI BENEDETTO.

Accostiamoci alla Passione di Cristo facendoci guidare dalle parole di Madeleine Delbrêl, nel centenario della sua conversione – dal sito “il vino nuovo” (file pdf)